Roberto Valentini è nato al quarto piano di un palazzone tirato su in fretta ai tempi del boom edilizio. Quando lo vide, sua madre pensò di aver messo al mondo un coniglio, tanto il primogenito era brutto e insanguinato, poi con il tempo è migliorato. Certo se quella sera del 22 luglio 1960 avesse resistito ancora qualche ora, sarebbe nato sotto il segno del Leone e avrebbe avuto carattere più ardito, ma il neonato emise il primo vagito con gli astri nel Cancro, segno poetico e piagnone. L'infanzia fu un periodo felice, vissuto all’aperto, su strade non ancora pericolose e vicine alla campagna.
L'adolescenza trascorse tumultuosa tra traslochi in case sempre più grandi, masturbazioni mentali (e non solo), motorini, afflati poetici e delusioni amorose. Emerse via via un'indole romantica contrassegnata da uno spirito guerriero che nemmeno i frequenti sette in condotta domarono. Nonostante questo, o proprio per questo, se la cavava bene a scuola, con gli amici e nello sport. Nel salto in lungo a quattordici anni sfiorò i sei metri, e nel calcio giocò come centravanti nella stessa squadra di Giancarlo Corradini, poi campione d’Italia con Maradona. Con il salto in lungo ha smesso da tempo, mentre a calcio si ostina a giocare nonostante le ernie al disco e malanni vari. Da qualche tempo ha cominciato ad assumere la sembianza del ciclista, ma i suoi novanta chili poco si adattano alle salite, affrontate gettando cuore e polmoni oltre la collina.
Progressista come si conviene a un giovane, ma troppo pigro per la politica, si dedicò ai viaggi e visitò prima l'Europa, poi gli Stati Uniti, tornando solo quando le minacce di disconoscimento dei familiari si fecero insostenibili.
Siccome nella vita bisogna cercare di fare quello che piace, commise la leggerezza di iscriversi a Lettere Moderne, a Bologna. Nel 1985 si laureò con il massimo dei voti con una tesi su Cesare Beccaria e Alessandro Verri assegnatagli dal prof. Ezio Raimondi, padre intellettuale che lo introdusse al pensiero di Popper e Heidegger, alla critica di Bachtin e Lotman, agli scritti di Benjamin e Barthes, alle osservazioni di Gombrich e Longhi. Di nascosto però frequentava anche le lezioni al Dams, dove seguendo un seminario sulla letteratura hard boiled, scoprì quelli che sarebbero diventati i numi tutelari della sua poetica nera: Dashiell Hammet, Raymond Chandler, James M. Cain e le loro versioni cinematografiche degli anni quaranta.
Dopo la laurea cominciarono i guai. Gli obiettivi erano vaghi, la vocazione precisa: sin dalla primissima scoperta di Verne e Salgari e dalla folgorazione hemingwayiana, Roberto, che aveva sempre letto molto, avrebbe voluto fare lo scrittore. Siccome però non trovava il coraggio di ammetterlo nemmeno a se stesso, né aveva idea di cosa significasse essere uno scrittore in Italia, si dilettava a darsi obiettivi civetta: università, giornalismo, cinema, tutti falliti per mancanza di benché minimi tentativi.
Messo alle strette da una famiglia abituata a sgobbare sodo, nel 1986 iniziò a lavorare nell’ufficio marketing di una grande azienda ceramica. L'impegno e la curiosità lo fecero riuscire bene e fu promosso responsabile marketing, ruolo che garantiva un buon stipendio, l'auto aziendale e la possibilità di viaggiare gratis.
La sua attività lo portò in contatto con una famosa pubblicitaria milanese (ora anche apprezzata scrittrice) alla quale fece leggere un romanzo, Storia alla Moda. La pubblicitaria gli diede qualche consiglio utile e la vocazione letteraria trovò nuova energia.
Dopo una serie di scritti ispirati prima al minimalismo carveriano (tuttora inediti) o alla visionarietà onirica di Ermanno Cavazzoni (che ebbero invece una breve apparizione sulla rivista Il Semplice) la lettura di Montalbàn e Izzo alla metà degli anni novanta gli fecero trovare nel noir una propria dimensione narrativa. Il lavoro però incombeva e per di più gli piaceva, così mollata la grande azienda decise di mettersi in proprio ed entrò come socio in un’agenzia di comunicazione, di cui è tuttora presidente. Il mestiere di copywriter, gli fece capire che la scrittura è come la medicina: ci sono tante specializzazioni, chirurgia, ortopedia, neurologia e tutte servono a curare gli uomini. Allo stesso modo esistono tante scritture (letteraria, poetica, cinematografica, teatrale, televisiva, e così via) che se fatte bene contribuiscono tutte a migliorare il mondo. Lo snobismo dei letterati che disprezzano la pubblicità (salvo poi farla di nascosto per soldi) gli risultò subito sospetto: ci sono da sempre campagne pubblicitarie più belle e intelligenti di tanti romanzi, e anche se ha impiegato anni a superare questo inferiority complex, oggi Roberto è sereno per il suo doppio lavoro, perché si è reso conto che scrivere fiction per la Tv può essere molto peggio che scrivere per la pubblicità.
Nel 1999 uscì dunque il suo primo romanzo, Calanchi pubblicato da una piccola e coraggiosa casa editrice, la Incontri di Sassuolo. Il romanzo, ambientato nel mondo del distretto ceramico sassolese, venne poi ristampato nel 2001 con il titolo di Impasto Perfetto, per la collana Impronte di Todaro editore, diretta da Tecla Dozio. L’incontro con Tecla Dozio ha contribuito in modo decisivo al suo destino di autore. Al primo romanzo con protagonista il giornalista-motociclista Carlo Castelli ne seguirono altri tre: Terre Rosse (2002) che ha come sfondo la Maranello del mito Ferrari; Nero Balsamico (2005) che indaga tra le preziose botti dell’Aceto Balsamico di Modena e Nella città di cemento (2009), che solleva il velo sulle infiltrazioni camorristiche nell’economia del nord.
Dopo un breve viaggio nel Sulcis e un innamoramento istantaneo per la Sardegna, (sublimato nel 2007 dall’invito al festival di Gavoi), nel 2008 pubblica Scimpru (Dario Flaccovio) un noir con tematiche sardo-emiliane. Nelle intenzioni il libro è anche un omaggio alla sua amicizia di lunga data con un bravissimo scrittore sardo.
Roberto scrive di notte, quando i pensieri si mescolano al vino, e riscrive di giorno, negli spazi lasciati liberi dalla sua attività di imprenditore. A chi gli chiede perché scrive, sobbarcandosi la fatica immane di questa doppia vita, risponde che scrive perché non riesce a farne a meno e che comunque non è una domanda da fare.
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