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L’amaro calice del delitto - Franco Foschi

Ogni giorno c’è qualcuno che canta il de profundis per il romanzo giallo (o come diavolo si voglia chiamare, poliziesco, thriller, legal thriller, detective story, polar, noir…): un genere ormai finito, esausto, autoreferenziale, impossibilitato a rinnovarsi, eccetera eccetera, dicono gli uccellacci del malaugurio.
Non sembrano pensarla così gli editori, che continuano a puntarci forte sopra. E se un editore punta forte su qualcosa è perché ha dei riscontri, difficile pensare lo faccia per filantropia o chissà che altro. Ma essendo appunto il romanzo giallo un genere che ha sfondato, dopo lustri di buio assoluto, ed essendo quindi in seguito uscito, dopo l’apoteosi del boom, dagli obblighi della moda, cosa ne è rimasto?
A prescindere da quelli che tentano di riciclarsi infilando un morto qua e là in una storia, e da quelli che hanno fatto altro, tipo il segretario di un partito che decide di scrivere un giallo, ebbene in realtà quel che è rimasto dopo l’uscita dalla moda è semplicemente gli autori. Adesso infatti è chi continua a scrivere gialli che dichiara una propria decisa vocazione, e denuncia un obiettivo solido. Roberto Valentini è uno di questi, di gialli ne ha scritti parecchi, e noi che sin dai suoi inizi lo leggiamo cominciamo ad apprezzare sempre di più l’autore, un pochino di più per volta, un pochino di più per libro. Anche in questo suo nuovo, impeccabile romanzo, Valentini percorre le strade che ben conosce, la provincia di Modena è il suo territorio, per le scorribande in moto nella sua terra e nel suo malaffare. La trama narra di come le nostre città siano affogate nel cemento, e di come il cemento sia il vero collante del rapporto politica-malavita che ha caratterizzato gli ultimi decenni della desolante storia del nostro paese. Denuncia, quindi, ma con l’obiettivo di raccontare, bene, una storia: questo è l’unico obiettivo di un romanziere. Se poi questa storia riesce poi a toccare gli animi o le coscienze, ben venga!
Gli strumenti di Valentini sono quelli che gli riconosciamo con piacere: una bella tornitura dei personaggi, la voglia di urlacchiare qua e là sulle disuguaglianze sociali, e soprattutto uno stile che è un cristallo, di una elegante semplicità e linearità – e chi scrive sa bene che questo è forse il risultato più difficile da ottenere. E che cosa può permettersi un narratore che ad esempio un giornalista, salvo rare eccezioni, non potrà mai permettersi? Può permettersi di ricordare l’indignazione di una bomba statunitense che fa strage di bambini in Somalia, senza che una sola voce si sollevi per urlare la rabbia. Può descrivere per filo e per segno di come il sistema mafia (camorra, in questo caso), Stato, enti locali, professionisti, alla fine si materializzi in risultati anche per i cittadini, che magari hanno aspettato per anni risoluzioni mai dichiarate dagli enti locali di un’altra amministrazione…
Carlo Castelli, il giornalista protagonista di tanti romanzi di Valentini, regge il gioco serio della sua professione risultando estremamente umano, quindi né perfetto né scontato, né impavido né troppo fragile, né esagerato in eroismi né spento o noioso: un po’ di tutto questo, forse, ma con il tratto netto della voglia di non farla passare liscia ai truffatori, agli assassini, e più in generale ai delinquenti… Oggi, una rarità, senza essere un battagliero magistrato.
Per concludere, il massimo dei complimenti che si possa fare a un giallista: il romanzo si legge tutto d’un fiato. Bello scriverlo quando è vero, quando ci si accorge che, magari stanchi della giornata più stancante della storia, con l’obiettivo di leggere anche una sola pagina prima del sonno, non ci si riesce a fermare, e si pensa ‘ancora il prossimo capitolo e poi basta’, ancora il prossimo capitolo e poi basta… E un sospiro di sollievo: Carlo Castelli non muore, avremo la possibilità di incontralo ancora una volta, lui e i suoi misteriosi vini… Roberto Valentini, “Nella città di cemento”, Todaro Editore 2009, 198 pagine, euro 15.50

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